“Prezzi triplicati per le navi e viaggi più lunghi di 15 giorni: la crisi del Mar Rosso cambia il commercio” secondo Corriere.it, e la stima non è (purtroppo) lontana dalla realtà.
Una delle caratteristiche del conflitto in atto in Medio Oriente sono le contraddizioni e gli interrogativi senza risposta. A quelli relativi alla “sorpresa” dell’attacco di Hamas del 7 di ottobre, si somma ora quello relativo alla imprevedibilità dell’offensiva dei ribelli Houthi nello Yemen. Attacchi altamente prevedibili se si considera che nel 2015 i ribelli Houthi occuparono l’isola di Permin, nel bel mezzo dello stretto di Bab el Mandeb (largo solo 18 miglia), e prima di esserne scacciati dall’Arabia Saudita, sequestrarono una nave petroliera dichiarando la loro sovranità yemenita sullo stretto di Bab el Mandeb. Oggi l’isola è diventata una base militare e aerea avanzata per le forze anti-Houthi.
Secondo il monitoraggio che il Centro Giuseppe Bono sta svolgendo, i rischi derivanti dal blocco della quarta via marittima più trafficata al mondo si sono focalizzati sino a oggi sul flusso delle merci e in particolare dei container attraverso il Mar Rosso e quindi il Canale di Suez; quasi una prova generale che potrebbe all’improvviso coinvolgere anche il trasporto di energia in superficie ma anche negli pipelines e nelle infrastrutture sottomarine.
Una più attenta valutazione di quanto sta accadendo nel Mar Rosso evidenzia sul fronte energia due elementi determinanti: se si eccettua il caso di una petroliera norvegese, il traffico di petrolio nel Mar Rosso sembra godere di una sorta di lasciapassare da parte degli Houthi. E molti analisti mediorientali pensano che ciò possa riflettere l’intenzione dell’Iran di evitare un’escalation del conflitto inevitabile se fosse colpito il traffico petrolifero (un quarto del traffico mondiale transita attraverso Bab el Mandeb). Non solo. Per il petrolio iraniano di alta qualità, il beneficio di un comunque inevitabile aumento delle quotazioni (non fosse altro per i premi assicurativi rischio guerra) sta rappresentando un vantaggio concreto specie per quanto riguarda l’export verso la Cina.
Non è un caso quindi, se il numero medio delle navi petroliere in transito nella zona a rischio missili e droni, è praticamente immutato rispetto alle medie del 2023, ma anche che le uniche navi cisterna dirottate sulla rotta della circumnavigazione dell’Africa siano tutte operate direttamente o indirettamente da interessi americani o israeliani.
Sempre secondo i risultati dell’analisi in corso svolta dal Centro Giuseppe Bono mentre il milione di barili di greggio in transito nell’area a rischio non dovrebbe subire eccessivo impatto dalle azioni dei ribelli Houthi, ben diverso sembra essere il crash sul traffico di gas, in particolare quello del Qatar ma anche sull’oleodotto transarabico sino al porto di Yanbu sul Mar Rosso. Traffico considerato da numerose “intelligence” ad alto rischio. E non è un caso che anche il gasdotto fra Egitto e Israele, abbia cessato di operare e quindi di garantire forniture all’Egitto già a poche ore dall’avvio dell’operazione Gaza. Idem per l’oleodotto fra Eilat sul Mar Rosso e Ashdod, sulla costa mediterranea di Israele. Oleodotto che (per ironia della storia) fu costruito da una joint venture israelo-iraniana prima dell’avvento al potere dell’Ayatollah Khomeini.
La comparazione fra le analisi in atto, svolte da differenti enti di ricerca e soggetti, solleva due ulteriori interrogativi: il primo relativo al recente blocco di Suez causato dalla portacontainer Ever Given: fu davvero causato da una tempesta di sabbia o da un errore umano? Oppure da un cyber attack?
E a proposito di cyber attack, il livello di alert su tutte le infrastrutture sottomarine in Mediterraneo è ormai in costante rialzo da settimane. Proprio in questa ottica il ruolo svolto dalla Marina militare italiana puó rivelarsi decisivo e ben piú rilevante rispetto all’azione deterrente svolta dalla singola nave oggi in missione nel Mar Rosso.
Photo Credit: Suez Canal Authority